CUBO DI GABO
sulle opere di Gabriele Dal Dosso
La scultura ha l’aspetto di un volume euclideo, di un cubo o di qualche altro poliedro. Non lascia indovinare l’infiorescenza che contiene.
L’esca. È sempre l’esca che teniamo d’occhio per metterci alla caccia di ciò che intuiamo ma che resta elusivo. Qui l’esca è uno spigolo, che è sufficiente aprire perché si dispieghi fino al paradosso di un labirinto nascosto.
Partendo dal principio elementare di un nastro di Möbius, Gabriele Dal Dosso concepisce delle opere geometriche, la cui complessa esistenza non si rivela che nel momento in cui le si manipola.
Guardiamo le mani in azione.
Una faccia ruota, muove un’aletta e poi un’altra, un’altra ancora si spiega, il poliedro fiorisce. Ogni faccetta ricade su di una banda che si richiude torcendosi su se stessa. Corolla articolata, eccola tra le dita, dispiegata a creare uno spazio senza dentro né fuori, senza sopra né sotto, senza retro – luogo puro.
La sfida dell’artista esula dal gioco. Per apprezzarne tanto il lato serio quanto quello malizioso è meglio non voler a tutti i costi ricomporre il poliedro, meglio non farsi prendere dal bisogno di compiere l’impresa ma, al contrario, entrare in quello spazio e lasciarsi prendere dall’avventura, dalle circonvoluzioni e dai dedali del pensiero.
Sospinti al cuore di un’attività silenziosa che necessita ragionamento e immersione interiore, di quella che potremmo chiamare meditazione, siamo presto affascinati dagli alambicchi della logica qui visibili, dalle sue digressioni, movimenti nuovi o ripetuti, dalle sue ossessioni.
Come davanti a un gioco di prestigio, guardiamo le sue mani scomporre e ricomporre questo cristallo, e cosa vediamo? Uno scheletro, una collana di petali triangolari, la danza di una meccanica fluida, che fa subito pensare a una geometria vivente, e ci invita a leggere in quest’opera forse una metafora di ciò che lega le leggi matematiche, quelle della vita e degli astri. Anche se potrebbe altrettanto bene evocare le elaborazioni oulipiane* o quelle costruzioni astratte che aprono le porte verso la metafisica, verso la mistica stessa.
Ciò che turba nel lavoro di Gabriele Dal Dosso, è che in questa immersione mentale abbiamo la sensazione di penetrare nella struttura stessa del pensiero; o piuttosto di vederla in movimento e, per così dire, materializzata. Ma quello che la umanizza qui e che la rende disponibile ai nostri sensi, sono le sue mani, sono le sue dita. Potremmo dimenticare che le mani servono anche a manifestare il pensiero, che sono ciò che permette di concretizzare un ragionamento che si sta elaborando, che si sta incarnando?
Rivelando il loro dissimulato disporsi e il loro paradosso, queste opere conducono verso ciò che forse fonde l’immaginazione con il misticismo: questo particolare luogo dello spirito che solleva dall’ossimoro, cioè dall’incontro degli opposti, della loro indifferenziazione, là dove possiamo irrompere fuori dalla logica tradizionale.
Eppure, malgrado questa evidente sofisticatezza, eccoci qui riportati, maneggiando l’opera, davanti a qualcosa di arcaico e di molto semplice: il legame tra le mani e lo strumento; e, in una certa maniera, riportati all’origine stessa della civiltà (se consideriamo questa parola sinonimo della materializzazione del pensiero, di questo strumento astratto, di questo potenziale che è la ragione davanti a un enigma).
Il percorso di Gabriele Dal Dosso potrebbe sembrare inscriversi in uno stretto processo formale, un po’ come i prodotti istintivi degli animali, dettati dalla loro propria costituzione. La mente potrebbe sentirsi in trappola, come un corpo in una legatura rituale. Eppure qualcosa si apre in queste opere, qualcosa che riporta a certe esperienze spirituali paradossali, un po’ come il piacere che nasce dal legame che intrappola l’innamorato; ed ecco quindi affiorare sulle labbra una questione essenziale: come ritrovare la libertà nell’apparente costrizione, nel vicolo cieco della nostra natura? Come può un vincolo formale farsi strada a forza per diventare libertà? Come può permettere alla mente di aprire botole che l’esercizio di una sana dieta razionale non sospetterebbe?
Paradosso che appare allora meno un gioco che un abisso metafisico, come l’incontro tra i nostri limiti e l’infinità possibile entro un limite.
E sappiamo bene che la risoluzione dei paradossi si trova nella contemplazione del mistero o in una fuga inattesa.
Essi soli possono schiudersi talvolta alla novità.
Patrick Autréaux
* da OuLiPo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero « officina di letteratura potenziale ») è un gruppo di scrittori e matematici di lingua francese che mira a creare opere usando, tra le altre, le tecniche della scrittura vincolata detta anche a restrizione. Si definiscono come «dei topi che costruiscono loro stessi il labirinto dal quale si propongono di uscire.» Il movimento venne fondato nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais. Altri membri di spicco sono i romanzieri Georges Perec, Italo Calvino e il poeta e matematico Jacques Roubaud.